IL MONDO DI INGMAR BERGMAN





Ultimo capitolo di "Lanterna magica:

Incontro immaginario con la madre già morta

Una domenica di dicembre ascoltai l'Oratorio di Natale di Bach
alla chiesa di Hedvig Eleonora.
Era di pomeriggio, la neve era caduta per tutto il giorno, silenziosa e senza vento.
Ora apparve il sole.
Ero seduto nella cantoria di sinistra, proprio sotto la volta.

La mobile luce del sole, scintillante come oro,
si rifletteva sulle finestre della Canonica di fronte alla chiesa
e formava figure all'interno della volta.
La luce diretta si rifrangeva attraverso la cupola in lame taglienti.
La vetrata a fianco dell'altare maggiore
 s'incendiò per qualche istante e poi si spense,
una silenziosa esplosione rosso cupa, azzurra, bruno dorata.

Il corale si diffuse pieno di speranza nella chiesa che s'immergeva nell'oscurità:
la devozione di Bach allevia il tormento della nostra incredulità.

Il tremolante, mobile disegno della luce sul muro si sposta più in alto,
si fa più sottile, perde forza, si spegne.
Le trombe levano al Redentore grida di giubilo in re maggiore.
Una dolce penombra grigiazzurra riempie la chiesa d'una calma improvvisa,
d'una calma fuori dal tempo.

Ora fa freddo, l'illuminazione delle strade non è ancora accesa,
la neve scricchiola già sotto i passi, il fiato fuma;
se fa così freddo all'avvento come sarà l'inverno? Sarà duro.

I corali di Bach si muovono ancora come veli colorati nello spazio della coscienza,
avanti e indietro sulle soglie, attraverso porte aperte, gioia.

Colto da una provvisoria baldanza, attraverso la Storgatan,
immersa nel silenzio domenicale, ed entro nella Canonica
dove c'è odore di detersivo e di santità, esattamente come cinquant'anni fa.

Il grande appartamento è silenzioso e abbandonato,
la luce riflessa dalla neve rischiara il soffitto,
una lampada da tavolo è accesa nella camera della mamma, la sala da pranzo è buia.
Qualcuno passa svelto e un po' piegato in avanti nel corridoio di servizio.
Di lontano giungono voci sommesse, voci femminili, una conversazione tranquilla e sussurrata,
i cucchiai battono con discrezione sulla porcellana, è l'ora del caffè
della domenica pomeriggio, in cucina.

Mi levo il cappotto e le scarpe, cammino senza far rumore nella sala da pranzo,
sul parquet appena lavato che scricchiola.

Mamma è seduta alla scrivania con gli occhiali sul naso,
i capelli non ancora bianchi sono un po. in disordine,
è china sul suo diario e scrive con una sottile penna stilografica.
La grafia è regolare ed energica ma microscopica.
La mano sinistra è appoggiata al sottomano; le dita sono corte e robuste;
il dorso della mano è attraversato da grosse vene azzurre;
le spesse fedi nuziali e, tra loro, l'anello con il diamante scintillano.
Le unghie sono tagliate, la pellicina mal curata.

Volta in fretta la testa e mi vede
(ho aspettato tanto questo momento, da quando la mamma è morta ho aspettato questo momento).
Ha un sorriso un po' formale e richiude subito il libro, togliendosi gli occhiali.
Le do un bacio filiale sulla fronte e sulla macchia bruna accanto all'occhio sinistro.
So che disturbo, questa è l'ora che volete avere per voi, lo so.
Papà dorme prima di cena e voi, mamma, leggete o scrivete sul vostro diario,
sono appena stato in chiesa a sentire l'Oratorio di natale di Bach,
era bello, la luce era bella, per tutto il tempo ho pensato:
adesso faccio un tentativo, questa volta riuscirà.
La mamma sorride, ironicamente, credo, so quel che sta pensando!

Passavi piuttosto spesso dalla Storgatan per andare al tuo teatro, tutti i giorni.
Allora però pensavi raramente di venirmi a trovare. Non lo facevo, no.
Ero bergmaniano: non devo disturbare, essere invadente, e poi si finisce sempre per parlare
dei figli, io non posso parlare dei figli perché non li vedo mai.
E poi il ricatto morale: puoi ben farlo per me.

Adesso non arrabbiatevi, mamma! Non dobbiamo discutere, non ha senso.
Lasciate che mi sieda per qualche minuto su questa vecchia sedia,
non abbiamo nemmeno bisogno di parlare.
Se volete proseguire a scrivere sul vostro diario...
La lavatrice. Dovevo comprare una lavatrice, accidenti.
La mamma dovrebbe avere una lavatrice, pensavo ogni tanto,
ma naturalmente non ne feci nulla.
La mamma si alza e va velocemente in sala da pranzo (sempre a
 passo veloce), sparisce nell'oscurità, per un attimo la si sente
 trafficare in sala, accende la lampada sul tavolo rotondo, ritorna, si
 stende sul letto con la coperta rosso scuro e si copre con uno scialle grigiazzurro.
Sono ancora stanca, dice con il tono di scusarsi.
Mamma,voglio chiedervi una cosa importante.

Molti anni fa, credo fosse l'estate dell'ottanta, ero seduto sulla mia sedia nello studio, a Fârö,
pioveva, una di quelle calme piogge estive che durano tutta una
giornata, piogge che non esistono più, veramente.
Leggevo e ascoltavo la pioggia. Allora sentii che voi, mamma, eravate vicino a me, accanto
a me, potevo tendere una mano e stringere la vostra.
Non m'ero addormentato, ne sono sicuro, e non fu nemmeno un'esperienza soprannaturale.
Sapevo che eravate con me in quella stanza, oppure era immaginazione?
Non riesco a capire, e ora ve lo domando!
La mamma, che mi ha osservato con attenzione, volta il capo da un'altra parte, prende
un piccolo cuscino a quadri verdi e se lo appoggia sullo stomaco.
Non ero io, dice con calma. Sono ancora troppo stanca.
Sei sicuro che non fosse qualcun altro?
Scuoto la testa: scoraggiamento, sensazione d'essere invadente.



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